Non solo ricette e vini, l'autentico enogastronomo studia la geopoetica

Enogastronomi non si nasce. E a volte neppure si prevede di diventarlo. Tanto più che la strada che porta a comunicare l’enogastronomia non è così facile o immediata come vuole oggi l’immaginario collettivo. Servono «esperienza, sacrifici, curiosità, viaggi, la conoscenza il più possibile ampia di ogni forma d’arte, in testa a tutte la geopoetica».
E’ così che descrive il cuore del mestiere, ciò da cui tutto nasce, Paolo Tegoni, enogastronomo di Parma, docente di ‘Cultura della gastronomia’ all’Università di Parma, di ‘Terroir ed enografia italiana’ presso l’MBA Food& Wine dell’Università di Bologna e di ‘Cultura delle eccellenze enogastronomiche italiane’ all’Istituto universitario salesiano di Venezia.
«Con questa “banalizzazione” del settore sfornata da numerosi programmi televisivi molto in voga oggi – afferma l’esperto – si è perso il vero senso di una professione che in realtà è molto complessa. L’enogastronomia è una materia che va molto studiata prima di essere trasferita. Consideriamo che abbiamo a che fare con un paniere enorme di prodotti agroalimentari, i quali, uno per uno, vanno collocati nel giusto tempo e nel giusto spazio. Il secondo passaggio sarà quello di trasferire, appunto, le conoscenze intorno a questi prodotti a neofiti, appassionati, studenti e conoscitori».
Tegoni, che appartiene alla scuola di Luigi Veronelli, Mario Soldati, Paolo Monelli e Piero Camporesi, considera l’enogastronomia come materia che va collegata a discipline ad essa attinenti come la storia, la sociologia, l’antropologia, la psicologia, la letteratura, a modo suo anche la politica. E, in testa a tutte, la geopoetica, portata all’attenzione internazionale da Kenneth White.
«Quando presentiamo un prodotto – precisa Tegoni – non possiamo prescindere da due aspetti che lo riguardano: il suo spazio e il suo tempo. Vale a dire, l’enogastronomo deve essere anche storico e geografo, poiché quando “trasmette” un prodotto deve comunicare non solo quel prodotto in senso stretto, ma tutto quello che esso può raccontarci al riguardo del suo proprio terroir. Oggi lo chiameremmo storytelling, in realtà è una pratica utilizzata dagli esperti del settore da quando i vari Veronelli,  Monelli e Soldati, appunto, iniziarono a farlo».
Ma Tegoni, sette anni come steward in Alitalia, mai avrebbe pensato di diventare un esperto del settore. «Mossi i primi passi da sommelier a Roma, poi per 5 anni rimasi a Parigi come sommelier professionista. Lì mi si aprì un mondo e a quest’esperienza risale un imprinting a cui devo molto. Tornai a Parma e mi laureai in Scienze Gastronomiche. Dopodiché la Facoltà mi propose di restare per insegnare la materia. Ed eccomi qua».
Al di fuori dell’insegnamento, Tegoni sta portando avanti diversi progetti. Tra questi un progetto internazionale che ripercorre la nascita, il percorso e i luoghi della Malvasia. «La Malvasia fu il vino della mia “iniziazione”. A casa mia si beveva Malvasia. E quando ne sento il profumo, in qualunque parte del mondo mi trovi, mi sento a casa. Studiarne la genesi e lo sviluppo era come un ritorno alle origini e il ricordo l’ho trasformato in un mestiere. Sono partito dal Peloponneso, dove hanno avuto origine i vini che oggi in Europa portano questo nome. Ho proseguito per Madeira e sono ancora “in cammino”. I risultati in fieri dello studio verranno trasmessi in aula, sulla stampa, in un docufilm televisivo e non solo».
Il progetto, che ha nome NEMO (acronimo per Never Ending Malvasia Odyssey) è partito da un anno e, come rivela il nome, non avrà mai fine. «Perché così è l’enogastronomia – conclude lo studioso – sempre in divenire, sempre in cammino, capace di imboccare strade che nemmeno ci immaginiamo».
In: La Voce di Reggio, 5 novembre 2017

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