Vini, territori e cultura popolare dell'Emilia Romagna. In viaggio con Giorgio Melandri
«Il racconto è parte integrante del
"prodotto vino". Secondo me c'è una trama principale, il territorio
inteso come l'insieme del luogo e della sua comunità, storia compresa, e la
storia del produttore. Il produttore aggiunge dettagli, sorprese, sogni, ma
senza il territorio il vino non esisterebbe. Il suo valore simbolico è radicato
nella nostra cultura e questo essere rappresentativo di quello che siamo (e
siamo stati) lo rende speciale».
Ci
racconti due aneddoti che ricorda dai suoi viaggi in Emilia Romagna
«Il primo è quello di Valturio, l'impresa
visionaria di Adriano Galli. Siamo nel Montefeltro, regione storica oggi divisa
tra Marche, Romagna e Toscana, che da secoli non aveva una presenza di vigne.
Adriano, proprio su questa mancanza, ha costruito la sua narrazione: l’idea che
un uomo possa “inventare” un territorio è affascinante e infatti a vedere le
sue vigne di Sangiovese sono venuti da tutto il mondo. Il vino tra l’altro è
meraviglioso. Lui è un uomo di grande cultura e ha giocato con la storia come
poche volte ho visto fare.
Il secondo aneddoto riguarda Emilio
Placci de Il Pratello. Egli ha recuperato la storia dei territori alti di
Modigliana rivoluzionando il linguaggio del romagna Sangiovese. Emilio ha
piantato le sue vigne nei terreni del padre, agganciandosi a una storia
familiare già consolidata. Lì il racconto del vino era già radicato ed Emilio
gli ha dato una vita nuova. Puntare sull'eleganza trent'anni fa non era
scontato, oggi è più facile dirlo, ma fu una sfida con la storia, che a volte prende
e altre volte restituisce. Ha dei cicli, che viaggiano».
Se
dovesse attraversare l'Emilia Romagna, quali sono le tappe che non potrebbe mancare
e quali i relativi vini da degustare e perché?
«Quello sua via Emilia è un viaggio nella
diversità, per questo tutte le tappe sono importanti, anche quelle considerate
minori. È un ritratto composito, tutto campanile e storie di provincia. Bello
per questo, per la sua anima popolare.
Cito qualche tappa, ma è solo un percorso
del cuore: il romagna Sangiovese elegante dei territori alti di marne e arenarie
di Modigliana, l'Albana tutta corpo e sale della Torre di Oriolo, il Pignoletto
nelle versioni più coraggiose e verticali dei colli bolognesi, il Lambrusco di
Sorbara, per me un vero e proprio amore, con i suoi nasi floreali e la bocca
sottile, la Malvasia, che profuma sempre di festa e il Gutturnio piacentino, un
vino che nelle espressioni più minerali trova una incredibile profondità. C'è
anche la Fortana del Bosco Eliceo, un vino di paesaggio, con le vigne sospese
tra terra e mare. Mi piace anche la sua storia di vino della gente di valle, lì
c'è un serbatoio di inediti impressionante».
Quanto
conta per un produttore di vino trasmettere l'identità del territorio in cui
vive e coltiva le sue vigne?
«La comunicazione conta molto, questo
forse è ormai scontato. Quello che non si dice è che in un mondo affollato di
comunicazione quello che conta è essere veri. Il potenziale dell'autenticità è
sottovalutato. Le agenzie soprattutto inventano e invece le storie ci sono già e
vanno solo scovate. Ci vogliono sensibilità, occhio e riflessi pronti».
Cosa
cerca quando va alla scoperta di un territorio e dei suoi vini?
«Non cerco, trovo. Io mi metto in
ascolto. Soprattutto delle persone più fragili, sono loro che spesso nascondono
storie straordinarie. Il segreto è andare, viaggiare, incontrare tutti. A
vederlo così è un mestiere "vecchio", però in questo modo il
risultato è sempre speciale e, sopratutto, inedito».
Quali
fattori colpiscono la sua sensibilità?
«Mi piacciono i perdenti, specialmente
quelli di successo. La storia più formidabile del mondo è quella del brutto
anatroccolo... Quando c'è la fa chi non ce la deve fare il racconto diventa
imbattibile. A pensarci è la storia del lambrusco... ».
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