Non solo vino. Storie, passioni e tradizioni nascoste nelle bottiglie dei produttori reggiani

Storie di famiglia, modelli imprenditoriali, esempi di territorialità, un rapporto identitario potente con la propria terra. E, soprattutto, passione, tantissima. Questo e molto di più si cela dentro ogni singola bottiglia di vino dei nostri produttori. In territorio reggiano, e in generale in tutta l’Emilia Romagna, questi valori sono considerati sacrosanti, sono l’energia che muove tutta quanta la materia, il moderno e l’antico insieme, il passato e il futuro che si fondono, l’incontro delle antitesi, la tensione verso la perfezione.
Tra gli esempi di imprenditorialità che offre il nostro territorio non c’è che da scegliere.
Fu “solo” per amore della propria terra, che nel 2005 Massimiliano Bedogni, una vita da grafico pubblicitario, fondò le Barbaterre, a Bergonzano di Quattro Castella, terra di calanchi, a 400 metri di altitudine in una zona soleggiata e ventilata. Quando iniziò a frequentare Erika Tagliavini, che avrebbe poi sposato, le raccontò il suo sogno con una passione tale da farla innamorare sia di lui che del sogno. «Anche io provenivo da un altro mestiere che nulla aveva a che fare col vino – racconta Tagliavini -, tanto che quando Massimiliano, nel 2013, ci lasciò, volli portare avanti il suo sogno, che nel frattempo era diventato anche il mio».
Oggi Barbaterre produce nel complesso 30mila bottiglie. La passione di Erika per le bollicine («le amo come la mia stessa vita», dice) l’ha portata a scegliere la “strada meno battuta”. «Abbiamo scommesso, oltre che sul lambrusco, sul Marzemino rosato dell’Emilia, che abbiamo chiamato “Besmein”, il suo nome in dialetto reggiano. Proviene esclusivamente da uve di Marzemino. Un’altra scommessa è stata anche il Sauvignon frizzante, che da uve Sauvignon 100% diventa un vino ancestrale».

Per il metodo classico Barbaterre vinifica in rosè. Il risultato è un Pinot Nero, «non un “rosatello” di quelli che vanno tanto di moda da alcuni anni – specifica Tagliavini, che in cantina è aiutata dall’enologo Paolo Posenato -, ma un’uva Rosé tra le più adatte a produrre vini con le bollicine. Ed è proprio dai terreni di calanchi, mediamente argillosi, che derivano quella sapidità, mineralità e struttura che rendono originali questi vini».
Se dalle colline di Quattro Castella ci spostiamo nella valle dell’Enza, ci imbattiamo nella storia di una “famiglia nata per fare il vino”, la Medici Ermete.
Tutto iniziò con il capostipite Remigio, che a fine Ottocento fondò una cantina per valorizzare i vigneti di famiglia, ubicati appunto fra la via Emilia e i primi rilievi della valle dell’Enza. Il figlio Ermete ingrandì l’azienda consolidandone la fama e i nipoti Valter e Giorgio ne diffusero ulteriormente il marchio. Oggi la Medici, che conta 75 ha di appezzamenti in proprietà, è guidata dalla quarta generazione di famiglia: i fratelli Alberto e Alessandra e il loro cugino Pierluigi.  
La vera innovazione dell’azienda è consistita nel credere fortissimamente nel territorio. «Negli anni ’80 – racconta Giorgio Medici – decidemmo di piantare vigneti propri, produrre le nostre uve e venderne il vino. Fu così che nacque il nostro prodotto di punta: il Concerto. Per quei tempi fu una vera follia, perché nelle aziende vinicole si imbottigliava il vino di uva acquistata».
Con una produzione di circa 150mila bottiglie, il Concerto, che per l’ottavo anno consecutivo ha ottenuto i Tre Bicchieri del Gambero Rosso, è prodotto da sempre con sole uve lambrusco salamino e vigneti cru delimitati del territorio d’origine.
Da non dimenticare il Daphne Malvasia di Candia in purezza metodo Charmat (15.000 bottiglie), le cui uve provengono da vitigni cresciuti unicamente presso la Tenuta di famiglia "La Rampata", e il Granconcerto Rosso Brut (2.500 bottiglie), che altro non è che il Concerto in versione metodo classico 100% salamino in purezza.
E proprio la costanza nel raccontare l’idea di un lambrusco secco prodotto da uve di proprietà e caratterizzato dal legame inscindibile tra vino e territorio ha premiato l’azienda, che realizza infatti una quota export del 72% in 70 paesi del mondo, in primis Germania, Stati Uniti, Giappone, Spagna, Russia e Brasile. E’ presente in alcuni dei locali e delle enoteche più prestigiosi al mondo, dagli stellati Michelin al londinese Harrods.
Un altro modello ancora è quello rappresentato da Emilia Wines, che ha scelto la forma della cooperazione per operare e produrre con grandi volumi.
Nata alla fine del 2013 dalla fusione fra la cantina di Prato di Correggio, la Nuova di Correggio e quella di Arceto, oggi Emilia Wines conta oltre 700 soci distribuiti in 1500 ettari tra la via Emilia e l’Appennino, in una terra di mezzo tra due fiumi, il Secchia e l’Enza. La cantina lavora 375mila q di uva.
Come racconta il presidente, Davide Frascari, «l’obiettivo era affrontare in modo organizzato i mercati esteri, cosa che non avremmo potuto fare da soli. Stiamo puntando sul Giappone, in primis, e continueremo su mercati come Usa e Germania».
E’ in progetto un’ulteriore valorizzazione della Spergola con la creazione a Reggio di una zona per la DOCG, mentre prosegue la produzione del Migliolungo, uvaggio di diverse varietà di lambruschi antichi, in convenzione con l’Istituto Zanelli.

In: La Voce di Reggio, 2 aprile 2017, speciale Vinitaly 

Commenti