Al Guggenheim è in mostra l'Utopia

In Il Sole 24 Ore online

«In Utopia … [si] dileguano paure, ansietà, affanni, tormenti e insonnie». Ben prima che Thoman More coniasse il termine "utopia", con l'opera eponima del 1516, la realizzazione di una società ideale ha rappresentato l'aspirazione di poeti, filosofi e artisti. Nei secoli, i pilastri del pensiero occidentale hanno tentato di formulare un paradigma utopistico che potesse funzionare nella pratica. Oppure ne hanno rinnegato la speranza, fagocitati dalla sua antitesi, la "distopia" ovvero l'utopia che ha perso il controllo, incarnata nei regimi totalitari del XX secolo, nazismo e comunismo sovietico. Gli stessi principi hanno attecchito nel terreno dell'arte, dove lo sviluppo di una società ideale poteva risultare più realizzabile perché in un contesto ristretto: le comunità di artisti, appunto. A Venezia, la Collezione Peggy Guggenheim presenta fino al 25 luglio «Utopia Matters: dalle confraternite al Bauhaus», a cura di Viviene Greene.

I nove movimenti artistici che vengono presentati e che abbracciano 130 anni di storia sono testimonianza dei tanti e diversi aspetti che l'utopia può assumere se fatta propria dagli interpreti dell'arte: dalle confraternite ottocentesche alle avanguardie del primo dopoguerra, ai movimenti dei primi anni Trenta, quando il nazismo interviene per chiudere il Bauhaus e lo stalinismo per riformulare il costruttivismo russo.Ad accomunarli, il rifiuto di una pratica, di un'idea, di una realtà. E la volontà di creare un proprio mondo ideale, benché ristretto, ma comunque separato dalle strutture tradizionali della società. A distinguerli, nel corso dei secoli, il diverso approccio a quella società. Se alcuni di loro si ritirano in conventi e monasteri, sposando uno stile di vita semplice o ascetico, altri cercano di intervenire sulla realtà, nell'idea che l'arte possa migliorarla. Così, i Primitivi, nella Parigi di fine Settecento, che si rifanno all'arte greca arcaica ed etrusca e al Quattrocento italiano (Jean Broc, La morte di Giacinto, 1801) diventano vegetariani, indossano lunghe tuniche, si fanno crescere la barba e si ritirano in un vecchio convento abbandonato per vivere nel modo più semplice possibile. Nello stesso periodo, a Vienna, i Nazareni, insoddisfatti degli insegnamenti dell'Accademia di belle arti, elaborano uno stile di vita monastico e aspirano a riscoprire la sincerità e la moralità dell'arte (vedi Friedrich Overbeck, La resurrezione di Lazzaro, 1808). A metà Ottocento, si fa strada invece la reazione alla meccanizzazione e alla disumanizzazione procurata dal lavoro industriale. Così, il britannico William Morris, progenitore del movimento Arti e Mestieri, sempre più impegnato nel movimento socialista, propone un sistema di produzione collettiva su esempio delle corporazioni medievali. E, a fine secolo, la colonia artistica Cornish, nel New Hampshire, tenta di fondere arte, cultura e paesaggio in uno stile di vita armonico, lontano dalla realtà del mondo urbano, in nome di un alto estetismo utopico (Thomas Wilmer Dewing, Estate, 1890 e Musica, 1896-1900).L'ambizione utopistica assume natura sempre più politica man mano che ci avviciniamo al nuovo secolo. Ne sono un esempio i neoimpressionisti francesi, che dipingono cicli pastorali di vita contadina (Camille Pissarro, Il gregge, Eragny-sur-Epte 1888, e La fabbrica di mattoni Delafolie a Eragny, 1886-88) e si fanno sostenitori di ideali come i diritti e l'educazione delle classi lavoratrici. Ma gradualmente l'utopia mostra il proprio lato fortemente contraddittorio. Nel Novecento gli ideali utopistici sono sempre più posti al servizio di programmi politici, una realtà che li porterà a limitarsi e a mostrare molte delle proprie contraddizioni.


Utopia Matters: dalle confraternite al Bauhaus
Venezia, Collezione Peggy Guggenheim
1 maggio – 25 luglio
http://www.guggenheim-venice.it/
Foto da: Collezione Peggy Guggenheim Venezia


Alessandra Ferretti in:
Il Sole 24 Ore Cultura e Tempo Libero

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