Tutta la vita davanti? Su giovani e precariato...

Appena uscita nelle sale cinematografiche, la pellicola firmata da Paolo Virzì, "Tutta la vita davanti", ha riscosso un immediato successo. Forse per l'attualità del tema, forse per l'umanità e il realismo dei suoi interpreti, forse, non ultimo, per l'identificazione che esso istintivamente ispira in chi oggi lavora in maniera precaria.
La protagonista del film, Marta, è una neolaureata in filosofia teoretica, che finisce a vendere elettrodomestici in un call center, la quintessenza del lavoro precario per eccellenza.
La pellicola è il risultato di un profondo lavoro di documentazione "non facile", spiega Virzì, "perchè si trattava di realtà lavorative difficilmente penetrabili. Abbiamo osservato da vicino l'attività di un call center outbound, nel quale l'operatore è chiamato ad irrompere telefonicamente nelle case per vendere. Inoltre, abbiamo consultato il sindacato NIdiL-Cgil, che dà voce e rappresentanza ai lavoratori atipici, i quali spesso si rivolgono ai consulenti per sapere, ad esempio, se sia illegale andare in bagno durante l'orario di lavoro oppure se il team leader possa togliere lo stipendio al lavoratore per motivarlo".
Ma cosa c'è davvero dietro al dilagare del lavoro precario di oggi? "Vediamo ragazzi", commenta Virzì, "che si entusiasmano per gli Amici di Maria De Filippi e che allo stesso tempo provano un profondo smarrimento per il loro futuro. Il precariato non è solo il risultato di una politica aziendale aggressiva. E' vero che i posti chiave continuano ad essere occupati da una classe politica da reparto geriatrico. Ma è anche vero che oggi è considerato poco cool impegnarsi in certi mestieri. L'Italia vanta un comparto agroalimentare all'avanguardia, ma i ragazzi, piuttosto che mungere le vacche (oggi lo si fa con strumenti all'avanguardia, ndr), preferiscono lavorare nei call center o vendere telefonini, perchè fa più figo raccontarlo in disco".
Sono parole di un regista affermato, che però, per arrivare, ha lavorato in fabbrica, poi come guardiano e come guida turistica quando capitava, senza magari essere neanche troppo competente sulle bellezze della sua Toscana. "Oggi c'è il rischio", conclude, "che una generazione nata privilegiata finisca disgraziata".
E, proprio in questi giorni, è uscito il Primo Rapporto sul mercato del lavoro in Italia, realizzato dall'Agenzia per il lavoro Ranstad Italia, in collaborazione con la Fondazione Marco Biagi, il Centro studi internazionali e comparati "Marco Biagi" dell'Università di Modena e Reggio Emilia e la Scuola di Alta Formazione in Relazioni industriali e di lavoro di Adapt.
L'analisi è stata condotta su un campione di 391 aziende clienti di Randstad Italia, dislocate in tutta la penisola, il 50% delle quali si compone di un numero tra 6 e 50 dipendenti, il 28% tra 6 e 20 addetti.
A sorpresa, è emersa la fotografia di un Paese in cui il mercato del lavoro, a differenza del resto d'Europa, è largamente stabile e in cui le aziende tendono a confermare le risorse valide nel giro di un anno. Spicca una preponderanza dei lavoratori a tempo indeterminato (77,4%) ed una minoranza di contratti di lavoro in somministrazione (pari al 7,2%, mentre nella media nazionale non raggiungono l'1%), di part-time (6,2%), di contratti a tempo determinato (4,7%) e di contratti di collaborazione, siano essi occasionali, co.co.co. o a progetto (1,1%).
Dal canto loro, le imprese lamentano difficoltà nell'assunzione di personale qualificato (49%). Le cause prevalenti sono l'insufficiente esperienza lavorativa dei candidati (29%), il loro atteggiamento (24%), la formazione inadeguata (22%) e una richiesta finanziaria eccessiva (9%). Inoltre, mancherebbe la disponibilità a lavorare in luoghi distanti dalla propria residenza.
A ben vedere, molte delle possibilità contrattuali messe a disposizione delle aziende da parte del legislatore non sono sfruttate, mentre altre clausole della legge Biagi non sono proprio attuate.
Viene confermata la scarsa presenza del genere femminile ai vertici delle realtà aziendali italiane: le donne risultano sottorappresentate nella posizione dirigenziale e manovale e sovrarappresentate in quella impiegatizia.
Nel medio periodo, il 31% delle imprese dichiara di voler aumentare il numero di dipendenti stabili, il 53% di tendere a mantenere costante la dimensione occupazionale dell'impresa, il 6% pensa che questa si ridurrà e il 10% non sa.
Questi dati confermano quelli dell'indagine Isfol PLUS sui lavoratori, commissionata nel 2006 dal Ministero del Lavoro e finanziata dal Fondo Sociale Europeo.
Dalla ricerca, emerge come il lavoro a tempo indeterminato in Italia sia pari al 63%, a tempo determinato al 4,75%, i titolari di attività siano il 10%, mentre gli altri si suddividono tra apprendistato (1,5%), contratto d'inserimento (1%), lavoro interinale (1%), collaborazioni coordinate e continuative (1,66%), collaborazioni occasionali (1,6%) e lavori a progetto (2,5%).
Il motivo del carattere temporaneo del contratto, si dice, è solo in parte legato ad istanze di flessibilità produttiva-organizzativa dell'azienda. Tanto più che l'incidenza di forme atipiche nel mondo del lavoro varia sia in funzione di caratteristiche socio-demografiche dell'offerta di lavoro (gli effetti delle riforme hanno gravato in misura più pesante su alcuni gruppi e generazioni rispetto ad altre), sia in relazione a caratteristiche della domanda di lavoro (quando la dimensione, il comparto e la proprietà aziendale consente possibilità occupazionali diverse). Ciò ha contribuito ad una forte polarizzazione dei lavoratori tra standard ed atipici.
Della ricerca Isfol colpisce comunque l'effetto delle forme di lavoro flessibile sulle generazioni più giovani: paradossale la posizione dei laureati, per cui l'atipicità incide in maniera molto più forte che per i titoli di studio inferiori.
Qui emerge infatti come la condizione lavorativa dipendente, quando non sia permanente, tenda a venire interpretata come foriera di precarietà.
Se mettiamo a confronto i due studi, il primo centrato sulle aziende, il secondo sui lavoratori, vediamo come sia diverso il "percepito" dai lavoratori, che dipende anche dal "vissuto" personale, rispetto alla realtà dei dati statistici del mercato nel suo complesso, in cui le percentuali di lavoratori occupati secondo lavoro "standard" sono abbastanza elevate.
Michele Tiraboschi (in foto), direttore del Centro studi internazionali e comparati "Marco Biagi" e coordinatore dello studio Randstad, commenta: "Da una parte, le imprese faticano a trovare le figure professionali di cui hanno bisogno, vuoi perchè la scuola non prepara in maniera adeguata, vuoi perchè manca un percorso di orientamento al lavoro, e non ultimo, perchè la tendenza degli ultimi anni è quella di scegliere materie umanistiche. Dall'altra parte, incidono le aspettative sociali di lavori prestigiosi e di successo, motivo per cui una serie di mestieri altrettanto importanti e ben pagati vengono snobbati. Penso, ad esempio, alla tradizione cantieristica navale del nostro Paese: molti cantieri sono costretti a chiudere perchè non trovano personale specializzato. Purtroppo, la previsione è che il 50% dei nostri studenti di oggi saràcostretto a scegliere un lavoro diverso da quello per cui ha studiato. La colpa è anche delle famiglie, che trasmettono l'idea che un giovane o diventa dirigente oppure è un fallito".
E conclude: "Ricordiamo che la stabilità di un rapporto di lavoro è sì legata all'investimento che l'impresa fa su un lavoratore, ma, non dimentichiamolo, anche viceversa".
Alessandra Ferretti
In: Espansione, giugno 2008

Commenti